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30 Giugno 2022 | Approfondimenti tecnici

Il patto di prova e le novità della direttiva comunitaria

In occasione della seduta n. 70 del 31 marzo 2022 il Governo ha approvato la bozza di decreto legislativo attuativo della direttiva UE 2019/1152, la quale riporta alcune previsioni rilevanti in materia di periodo di prova.

L’istituto, applicabile ai contratti di lavoro dipendente sia a tempo determinato che a tempo indeterminato, è finalizzato a consentire al lavoratore di valutare l’esperienza lavorativa ed al datore di lavoro di verificare le competenze e le effettive capacità del lavoratore, così da poter entrambi soppesare la convenienza di un eventuale rapporto di lavoro.

L’articolo 2096 cod. civ. prescrive che il patto di prova debba risultare da atto scritto, pena la trasformazione del rapporto di lavoro a titolo definitivo, e contenere l’indicazione specifica delle mansioni che il lavoratore è tenuto a svolgere durante la prova, anche mediante rinvio alla declaratoria riportata nel contratto collettivo applicato.

Durante tale periodo il prestatore di lavoro ha diritto a ricevere il medesimo trattamento normativo che dovrebbe competergli in caso di assunzione definitiva, con conseguente maturazione della retribuzione e di tutte le spettanze quali i ratei di tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto, le ferie retribuite ed eventuali premi annuali (Corte Costituzionale n. 189/1980).

Compiuto il periodo di prova, se nessuna delle due parti recede, l’assunzione diventa definitiva senza necessità di ulteriori conferme o comunicazioni ed il servizio già prestato si computa ai fini dell’anzianità di servizio.

Il periodo di prova non può avere durata indeterminata o comunque eccessivamente protratta nel tempo.

Tale principio è ribadito anche dalla direttiva comunitaria sopra citata, la quale rileva che effettivamente gran parte degli Stati membri dell’Unione Europea ha fissato la durata massima generale dei periodi di prova in un intervallo di ragionevole durata compreso tra tre e sei mesi.

Come previsto dalla direttiva, solo eccezionalmente i periodi di prova dovrebbero poter durare più di sei mesi e solo purché ciò sia giustificato dalla natura dell’impiego, come nel caso di posizioni dirigenziali, esecutive o nella pubblica amministrazione, o se ciò sia nell’interesse del lavoratore, come nel contesto di misure specifiche per la promozione dell’occupazione a tempo indeterminato, in particolare per i lavoratori giovani.

Ebbene, sul punto il nostro ordinamento risulta essere già sostanzialmente rispettoso delle previsioni comunitarie.

Infatti, in Italia la durata del periodo di prova non può in ogni caso essere superiore a sei mesi e varia, entro tale limite, a seconda delle determinazioni delle parti, purché nel rispetto di quanto eventualmente previsto dai contratti collettivi, che spesso differenziano la durata anche in base alla mansione che il lavoratore si troverà a ricoprire.

Inoltre, la direttiva comunitaria, precisa che, in caso di rapporti di lavoro a tempo determinato inferiori a dodici mesi, gli Stati membri debbano assicurare che la durata di tale periodo di prova sia comunque adeguata e proporzionata alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego.

Sul punto in Italia è piuttosto raro rinvenire contratti collettivi che riproporzionino la durata del periodo di prova nella specifica ipotesi di contratti a tempo determinato. Sarà quindi opportuno, in adesione alle prescrizioni comunitarie, che la contrattazione collettiva, sulla spinta del legislatore nazionale, riproporzioni la durata dei periodi di prova per i contratti a termine, nonché per i contratti a tempo parziale verticale o misto.

Si segnala che, in caso di rinnovo di un contratto per la stessa funzione e gli stessi compiti, il rapporto di lavoro non è soggetto a un nuovo periodo di prova.

Nulla, invece, vieta che il datore di lavoro riassuma successivamente in prova il medesimo lavoratore, purché la prova venga espletata per mansioni diverse rispetto a quelle precedentemente svolte.

La Corte di Cassazione ha, altresì, avuto modo di ammettere la reiterazione del periodo di prova anche qualora:

  • sia decorso un apprezzabile lasso di tempo rispetto al precedente contratto (Cass. n. 8237/2015);
  • tra i due rapporti siano mutati nel frattempo altri fattori, quali, ad esempio, il contesto sociale e lavorativo, le capacità professionali, le abitudini di vita, le condizioni di salute del lavoratore o l’organizzazione aziendale (Cass. n. 8237/2015; Cass. n. 28252/218);
  • vi sia l’esigenza datoriale di verificare ulteriormente il comportamento del lavoratore rilevante ai fini dell’adempimento della prestazione, in relazione a mutamenti eventualmente intervenuti per molteplici fattori attenenti alle abitudini di vita o a problemi di salute (Cass. n. 2289/2019).

In costanza o al termine del periodo stabilito per la prova, ciascuna parte può recedere (licenziamento da parte del datore di lavoro o dimissioni rassegnate dal dipendente in prova) senza obbligo di motivazione, di preavviso o di corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Tuttavia, il recesso datoriale, pur essendo sottratto alla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, non può essere arbitrario ma, da un lato, deve essere collegato all’esito della prova e, dall’altro, non deve essere diretto ad eludere norme imperative né essere fondato su motivo illecito determinante.

Pertanto, tale diritto potestativo, pur consentendo al datore di lavoro di valutare discrezionalmente l’avvenuto superamento della prova, senza dover dare alcuna giustificazione in caso di recesso, subisce, tuttavia, alcune limitazioni in particolari ipotesi:

  • nel caso in cui le parti abbiano concordato una durata minima necessaria ai fini della prova: in tale ipotesi, il recesso anticipato potrà essere esercitato esclusivamente per giusta causa, pena la corresponsione del risarcimento del danno;
  • nel caso in cui la prova abbia avuto una durata talmente breve da non consentire al lavoratore di dare prova delle proprie capacità: infatti, il datore deve concedere al lavoratore la possibilità di dimostrare la propria capacità di ricoprire le mansioni assegnategli;
  • nel caso in cui il datore abbia concretamente assegnato il lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle indicate nel patto di prova.

In tali ipotesi, il lavoratore sarà legittimato ad impugnare il licenziamento dimostrando l’effettivo superamento della prova e l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito.

Infine, la direttiva comunitaria affronta l’ipotesi di sospensione del periodo di prova per determinati eventi e la conseguente proroga della prova stessa.

In particolare, prevede che i periodi di prova possano essere prorogati in misura corrispondente qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro, per esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di lavoro di verificare l’idoneità del lavoratore al compito in questione.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha già avuto modo di intervenire a più riprese, precisando che il periodo di prova debba essere necessariamente prolungato per consentire alle parti di verificare la convenienza della collaborazione reciproca, laddove tale verifica sia stata impedita da eventi non prevedibili al momento della stipulazione del contratto.

Ad oggi, tali eventi imprevedibili sono identificati dalla contrattazione collettiva nazionale. Tuttavia, con l’entrata in vigore del decreto attuativo della direttiva comunitaria, dovrà essere lo stesso legislatore a individuare gli eventi interruttivi al cui verificarsi si dovrà prevedere la proroga del periodo di prova, quali malattia, infortunio e congedo di maternità o paternità obbligatori.

 

Autore: Avv. Roberta Amoruso

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