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14 Febbraio 2023 | Approfondimenti tecnici

Il patto di prova: periodo, specifiche e relativi casi di annullamento

Il patto di prova: la mancata specificazione delle mansioni fondanti il patto ne determina nullità

Per quanto il c.d. decreto trasparenza (d.lgs 104/2022) sia intervenuto per consegnare (o meglio dire imporre) una “trasparenza” di informazioni verso i lavoratori, talvolta sovrabbondanti e di difficile descrizione preventiva (basti pensare alla programmazione dell’orario di lavoro), il tema del patto di prova e della sua legittimità ricorre soventemente nelle aule giudiziarie.

La pronuncia della Corte d’Appello di Roma del 17 gennaio 2023 ci consente di ricordarci quali siano i dettami classici per l’apposizione di un corretto patto la cui natura, deve ricordarsi, dovrebbe essere bivalente (lavoratore / azienda) al fine di consentire una corretta valutazione del rapporto di lavoro nelle prime sue fasi di insediamento.

Il periodo di prova

Partiamo dalle basi.

Il periodo di prova, disciplinato dall’art. 2096 c.c., consiste in un periodo di tempo collocato all’inizio del rapporto di lavoro, stipulato nell’interesse di entrambe le parti contrattuali, poiché permette l’acquisizione di reciproche informazioni circa la prestazione lavorativa. Da un lato, il datore di lavoro potrà valutare le capacità del lavoratore e dall’altro, il lavoratore potrà rendersi conto del tipo di mansione che gli viene richiesta, delle modalità di lavoro.

La citata disposizione civilistica prevede che il periodo di prova deve risultare da atto scritto e deve essere formalizzato prima dell’assunzione dalle parti, pena la nullità dello stesso.

Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità, ad eccezione del caso in cui sia previsto un tempo minimo necessario per la prova, in tal caso la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine.

Terminato il periodo di prova le parti potranno recedere liberamente dal contratto senza obbligo di motivazione, oppure, potranno continuarne l’esecuzione. Nel primo caso non è necessario che venga rispettato il preavviso, o che vengano pagate le relative indennità sostitutive, mentre nel secondo caso non è necessario che il datore di lavoro comunichi la volontà di confermare il lavoratore, poiché viene determinato implicitamente dalla prosecuzione dell’attività lavorativa dopo la scadenza del periodo di prova.

La durata del periodo di prova è stabilita dai contratti collettivi in misura diversa a seconda del livello di inquadramento del lavoratore: maggiore sarà il livello e maggiore sarà periodo di prova. Viene lasciata ampia autonomia alle parti di prevedere una durata inferiore, a favore del lavoratore, al fine di ottenere la stabilità del rapporto.

Su questo tema, in passato, sono state pronunciate diverse sentenze dalla Suprema Corte, in ultimo la sentenza n. 9798/2020, con la quale era stata definita la possibilità di stabilire una durata maggiore della prova qualora il lavoratore fosse adibito a mansioni particolarmente complesse, in base al principio per cui il datore di lavoro necessitava di un lasso di tempo più lungo rispetto a quello ritenuto congruo per la generalità dei casi.  L’onere probatorio si concretizza, in questo caso, nel datore di lavoro, dato il vantaggio di quest’ultimo di poter usufruire di un tempo maggiore per valutare le capacità lavorative del dipendente.

Dal punto di vista normativo, dobbiamo ricordare il già citato d.lgs 104/2022 il cui art 7, rubricato “Durata massima del patto di prova” pone probabilmente la parola fine ad una diatriba quasi secolare in relazione al periodo massimo apponibile.

Invero, giova precisare come:

  • Si stabilisce un termine di durata massima pari a mesi 6, salva la possibilità di un periodo inferiore da parte del contratto collettivo. Con tale previsione dovrebbe essere tacitata la problematica sollevata dalla Cassazione (vedi su tutte Cass. n°21874 del 2015) a merito della quale sarebbe ancora vigente, ante 13 agosto 2022, il regio Decreto n°1825/1924 il cui art 4 fissa in tre mesi massimo il periodo di prova degli impiegati non aventi funzioni direttive;
  • Nel caso di rapporto a tempo determinato, la durata del patto dovrebbe essere “proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”. Anche tale principio era già stato recepito dalla giurisprudenza, al fine di evitare che all’interno del contratto a termine si formino delle fattispecie di illegittimità evidente;
periodo di prova

Il caso

La sentenza della Corte d’appello di Roma del 17 gennaio 2023 appare esemplare.

Si tratta di una lavoratrice assunta con contratto a termine per 12 mesi e con apposizione del patto di prova identificato nelle mansioni di “addetto di negozi o filiali di esposizione”, laddove vi era un mero richiamo al ccnl applicato (ecco perché il rimando alla declaratoria del contratto collettivo).

Non si tratta di un caso isolato.

In effetti con ordinanza n. 27785/2021, la Corte di Cassazione aveva già conservato una sentenza della Corte di appello di Milano, la quale aveva rilevato l’invalidità del patto di prova e la conseguente illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice, condannando la società a reintegrare la dipendente nel posto di lavoro e a corrispondere un risarcimento.

Anche in quel caso il difetto di specificità del patto di prova era stato rilevato, dato che nella fattispecie Milanese la lettera conteneva un astratto richiamo alla qualifica e al livello previsto dal contratto collettivo applicato all’azienda. Tale indicazione risultava inidonea, in difetto di altre indicazioni, a stabilire le concrete attività lavorative sulle quali avrebbe dovuto svolgersi la prova. Il patto di prova, specifica la Corte, deve contenere le indicazioni delle mansioni oggetto dello stesso, anche con riferimento alle declaratorie del contratto collettivo, “sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo”.

Dello stesso avviso il giudizio della Corte d’Appello romana la quale ha ritenuto troppo generico ed omnicomprensivo il riferimento al concetto di “addetto” e non qualificante il termine di “filiali di esposizione”.

Le conseguenze sono di rito. Nullità del patto con conseguente nullità del recesso.

 

patto di prova

Conclusioni

Per quanto elemento incidentale del rapporto di lavoro, il patto di prova necessità di una specificità orami essenziale in giurisprudenza. Meri richiami generici a compiti e/o declaratorie non appaiono in alcun modo tutelati.

Risulta dunque necessario specificare al meglio le mansioni sul cui patto insiste, al fine di evitare contenziosi il cui esito, in caso di soccombenza datoriale (ovvero la nullità), potrebbe essere estremamente gravoso.

Autore: Dr. Dario Ceccato – Founder Ceccato Tormen & Partners

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