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15 Marzo 2023 | Approfondimenti tecnici

Il licenziamento per scarso rendimento

Quali provvedimenti può adottare il datore di lavoro in caso di scarso rendimento del dipendente?

Può accadere che il datore di lavoro sia purtroppo costretto a confrontarsi con uno o più inadempimenti rilevanti del lavoratore con riferimento all’obbligazione principale sullo stesso gravante, ossia la corretta esecuzione della prestazione lavorativa.

Il dipendente è, infatti, tenuto a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie, svolgendo con diligenza, nei tempi e nei modi stabiliti, la prestazione lavorativa secondo le disposizioni impartite dal datore di lavoro, nel rispetto della legge e dei contratti collettivi.

Il mancato adempimento del lavoratore a tale obbligazione può legittimare il datore di lavoro ad assumere nei confronti del dipendente provvedimenti disciplinari che possono persino concretarsi in un licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

La giurisprudenza, non solo di merito ma anche di legittimità, ha nel tempo fatto chiarezza in relazione ai presupposti che possono legittimare il licenziamento per scarso rendimento, intervenendo da ultimo con l’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n. 1584 del 19 gennaio 2023, che si avrà modo di trattare nel prosieguo.

Come in più occasioni i Giudici di legittimità hanno avuto modo di affermare, l’esonero definitivo dal servizio per scarso rendimento si connota, sul piano oggettivo, per un rendimento della prestazione inferiore alla media esigibile e, sul piano soggettivo, per l’imputabilità a colpa del lavoratore.

Conseguentemente, il datore di lavoro, citato in giudizio a seguito di impugnazione da parte del dipendente del licenziamento intimato per scarso rendimento, avrà l’onere di provare non solo il comportamento negligente del dipendente, in quanto elemento costitutivo del recesso, ma anche che l’inadeguatezza del risultato non sia ascrivibile all’organizzazione del lavoro ed a fattori socio-ambientali.

licenziamento

Più precisamente, come già accennato, il licenziamento potrà ritenersi legittimo solamente al ricorrere dei seguenti presupposti:

  1. un presupposto oggettivo, consistente nella notevole sproporzione tra i risultati conseguiti dal dipendente e gli obiettivi assegnatigli dal datore di lavoro. Tale valutazione deve essere operata non in astratto, bensì considerando il rendimento concretamente esigibile dal lavoratore, rapportato al rendimento medio tenuto dagli altri dipendenti con medesima qualifica, mansioni e compiti, indipendentemente dagli obiettivi minimi stabiliti o dalla soglia minima di produzione. Sul punto, si ricorda che in molteplici occasioni la giurisprudenza è intervenuta per affermare che il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale non integra, di per sé, inesatto adempimento della prestazione, considerando che, nonostante la previsione di minimi quantitativi, il lavoratore è obbligato ad un facere e non ad un risultato. Conseguentemente, l’inadeguatezza della prestazione resa potrebbe essere imputabile alla stessa organizzazione dell’impresa o, comunque, a fattori non dipendenti dal lavoratore;
  2. un presupposto soggettivo, ossia la colpa del lavoratore. È, infatti, necessario che la sproporzione tra i risultati attesi e quelli conseguiti sia imputabile al lavoratore, ovvero sia la conseguenza di un colpevole e negligente inadempimento con riferimento agli obblighi contrattuali gravanti sullo stesso e non sia, invece, ascrivibile all’organizzazione del lavoro o ad altri fattori non riferibili al dipendente.

Non solo.

Come anticipato, recentemente la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta in materia con l’ordinanza n. 1584 del 19 gennaio 2023, precisando, altresì, che a fondamento dello scarso rendimento non possono essere posti comportamenti già sanzionati disciplinarmente, in quanto ciò costituirebbe un’indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite.

Anche nella fattispecie di scarso rendimento, pertanto, troverebbe applicazione il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica.

Infatti, come ricorda la Corte (citando Cass. 30 ottobre 2018, n. 27657): “una volta che, di fronte ad una condotta disciplinarmente rilevante, il datore di lavoro abbia esercitato il proprio potere punitivo, non solo si verifica la consumazione del potere in capo al titolare, sicché lo stesso non può più esercitarlo per il medesimo fatto, ma allo stesso tempo, il fatto costituente addebito disciplinare diviene non più sanzionabile, quindi perde il carattere di illiceità per l’esaurirsi del potere sanzionatorio”.

Nello specifico, la fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte consisteva nell’intimazione di un provvedimento di esonero definitivo per scarso rendimento, previsto da un regolamento attuativo del R.D. n. 148/1931 disciplinante il rapporto degli autoferrotranvieri. In particolare, tale provvedimento era stato inflitto sulla base di molteplici negligenze imputabili al lavoratore, già disciplinarmente sanzionate, seppure con misure conservative, nei precedenti anni.

La Suprema Corte ha ritenuto oramai esaurito il potere disciplinare, con la conseguenza che il fatto addebitato non risulta più sanzionabile, condizione equiparabile alla mancanza di antigiuridicità del fatto medesimo.

Pertanto, il Collegio ha giudicato applicabile alla fattispecie in esame la tutela reintegratoria c.d. attenuata di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), come novellato.

Autore: Avv. Roberta Amoruso

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